27 Luglio 2024
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Quattro anni dal referendum, per l’autonomia veneta non c’è la maggioranza

Quattro anni dal referendum del 22 ottobre 2017, quando oltre due milioni di elettori veneti, il 57,2% degli aventi diritto al voto, risposero alla chiamata di Luca Zaia e votarono a maggioranza schiacciante, il 98,1% di Sì, alla richiesta di autonomia regionale.

La richiesta venne approvata dalla Giunta regionale già il giorno dopo, chiedendo per il Veneto tutte le 23 materie aggiuntive che la Costituzione prevede siano attribuite alle Regioni che ne facciano richiesta.

Referendum, un trionfo per l’autonomia

Per Luca Zaia quel referendum fu un trionfo: la consultazione si concluse dimostrando che la stragrande maggioranza dei Veneti voleva l’autonomia e approvava la richiesta del governatore.

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Il segretario Pd Matteo Renzi, nemico giurato delle autonomie regionali, che aveva già tentato di segare con la sua fallita riforma costituzionale, snobbò il referendum veneto bollandolo come “inutile”. E invece i Veneti andarono a votare in massa, dando alla consultazione un immenso peso politico.

Il fronte contrario

Il referendum sancì la forza di Zaia, della Liga Veneta, e del Veneto, anche nei confronti di Matteo Salvini, il segretario della Lega ormai “ex Nord”, che non aveva potuto dire di no ma non si era certo strappato i capelli per per l’autonomia regionale. E provocò una netta spaccatura nel Pd: il partito nazionale si espresse per il No, il Pd veneto diede indicazione di votare Sì.

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Da allora, quattro anni sono passati. Quattro anni di trattative (per la verità interrotte durante l’emergenza Covid) che non soltanto non sono bastati per raggiungere un accordo tra Regione Veneto e governo italiano, ma hanno permesso il formarsi in Parlamento di un solido fronte assolutamente contrario alla concessione al Veneto e alla Lombardia delle maggiori autonomie, benché previste dalla Costituzione.

Non c’è una maggioranza per l’autonomia

E’ un fronte trasversale di parlamentari e forze sociali del Sud, appoggiato anche da numerosi parlamentari del Nord di partiti della sinistra (Pd e Cinquestelle), e della destra nazionalista (Fratelli d’Italia). E si dice che persino nei “nuovi parlamentari” meridionali della Lega di Salvini il fronte dei contrari sia molto attivo anche se meno rumoroso.

Luca Zaia (Foto di SereMas79, CC BY-SA 4.0)

In poche parole, nell’attuale Parlamento non esiste, né alla Camera né al Senato, una maggioranza disponibile ad approvare una vera autonomia regionale per Veneto e Lombardia.

Il trucco dei “livelli minimi”

La trattativa Veneto-Roma è stata, sostanzialmente, una foresta di paletti piantati per guadagnare tempo, per annacquare l’autonomia prevista dalla Costituzione, e per obbligare il futuribile accordo Governo-Regioni sull’autonomia, a passaggi parlamentari ripetuti, nei quali la maggioranza di contrari avrà modo di cannoneggiare ogni articolo ed ogni comma.

La concessione di “ulteriori autonomie” a Veneto e Lombardia è stata condizionata all’approvazione preventiva di una legge quadro sui “livelli minimi essenziali” di prestazioni: nelle mani di una maggioranza di contrari, è un vero e proprio grimaldello.

Il prelievo forzoso a Veneto e Lombardia

Un grimaldello, perché si garantirà al Meridione un “livello minimo essenziale” di servizi che risulterà del tutto irraggiungibile senza il mantenimento dell’attuale, gigantesco “prelievo forzoso” a Veneto e Lombardia in nome della solidarietà nazionale: circa 75 miliardi l’anno, una somma enorme, una estorsione che non ha eguali in nessun’altra “regione ricca” di nessun altro Stato europeo.

Il governo ha inoltre già escluso di poter trasferire al Veneto le competenze sull’Istruzione, benché queste siano esplicitamente elencate dalla “Costituzione più bella del mondo” tra quelle che sono trasferibili, su richiesta, alle Regioni.

Solo le competenze con minore “portafoglio”

Nel corso della trattativa, è emersa chiaramente la volontà di trattenere allo Stato anche altre competenze, e precisamente quelle che, nei bilanci statali, dispongono dei capitoli di bilancio più corposi. Perché la Costituzione dice che, insieme alle competenze, lo Stato deve ovviamente trasferire alle Regioni anche le risorse che usava per gestire le competenze trasferite. E quindi, il trucco è trasferire soltanto le materie con minore “portafoglio”.

Non bisogna dimenticare che il Veneto, prima ancora di celebrare il referendum per l’autonomia regionale, ha già pagato un prezzo altissimo sull’altare della trattativa con il governo italiano.

Referendum per l’indipendenza: era il 2014

Nel 2014 infatti, il Consiglio regionale del Veneto aveva approvato il disegno di legge proposto da Alessio Morosin, di Indipendenza Veneta, presentato in aula dal consigliere cimbro Stefano Valdegamberi: una legge regionale che indiceva un referendum sull’indipendenza del Veneto. Indipendenza, non autonomia!

Il Veneto è l’unica Regione dell’Italia ad aver votato una legge così coraggiosa, e poco importa che il governo l’abbia impugnata e che la Consulta l’abbia giudicata illegittima. L’averla votata resta un fatto di portata storica, che non può venir cancellato.

Referendum per un Veneto a Statuto speciale

Anche perché l’aver indetto un referendum sull’indipendenza del Veneto, da parte del Consiglio regionale, non fu un atto estemporaneo, ma si colloca in piena continuità con la volontà autonomista che il Parlamento veneto ha espresso fin dai primissimi anni Novanta, in piena Prima Repubblica. La prima richiesta, approvata in Consiglio Regionale, di referendum per un Veneto a Statuto speciale, risale al 1992. Quasi trent’anni fa…

Era appoggiata dal Psi e dalla Dc veneti, e naturalmente avversata dal PDS e anche, è giusto dirlo, dai vertici nazionali di Dc e Psi, tanto che fu impugnata dal governo quando il premier si chiamava Giulio Andreotti.

1998, diritto all’autodeterminazione del popolo veneto

Nel 1998, poi, sull’onda del potente rilancio della “questione veneta“, anche in opposizione alla Padania leghista, che scaturì dall’impresa dei Serenissimi, il Consiglio regionale approvò la Mozione 42, anche questa firmata dall’avvocato Alessio Morosin, con la quale si affermava pari pari il diritto all’autodeterminazione del popolo veneto.

Alessio Morosin (Indipendenza Veneta)

Sempre nel 1998 e poi ancora nel 2000, il Consiglio regionale del Veneto approvò altre due richieste di referendum per maggiori autonomie. E ancora nel 2014, insieme con il referendum per l’indipendenza, fu approvata una consultazione che chiedeva che l’80 per cento del gettito fiscale rimanesse nel Veneto.

Il referendum del 2017 è quindi inserito in una richiesta di autonomia, e di autodeterminazione, da parte del Veneto, che ha assunto veste ufficiale, veste di legge regionale, da ben trent’anni.

La strategia di Luca Zaia

La strategia del pragmatico Luca Zaia è stata questa: invece di farci nuovamente bocciare una legge e ritrovarci al punto di partenza, troviamo un accordo, un compromesso, che ci faccia fare un passo avanti sulla strada di una concreta autonomia regionale.

Facciamo un passo indietro per farne uno in avanti, mettiamo per ora nel cassetto l’indipendenza e l’autodeterminazione, e vediamo se Roma ci dà almeno quello che prevede l’attuale Costituzione.

Ebbene, no: al Veneto si vorrebbe rifiutare persino quanto è previsto nella Costituzione!

Il passo avanti di Zaia

La strategia di Zaia, tuttavia, un passo avanti lo ha fatto. Nessuna delle precedenti richieste autonomiste del Veneto era mai arrivata alla trattativa, a strappare impegni di governo, bozze di disegni di legge. Tutto era stato bocciato, sommariamente respinto e basta. Ora invece il tavolo è aperto, e qualcosa magari arriverà.

La nota al Dpef per l’autonomia

Il problema è quando arriverà, e quanta vera e visibile autonomia arriverà. Perché i numeri, in questo Parlamento, non ci sono.

E’ bastata, in questi giorni, la decisione di Draghi di inserire nella “Nota di aggiornamento al Dpef 2022”, tra i disegni di legge collegati al Dpef che il governo si impegna a varare, anche la legge quadro sull’autonomia differenziata.

Decine di parlamentari insorgono

Apriti cielo: decine di parlamentari, meridionali e non, sono insorti. E’ insorta la Cgil, sono insorti i Cinquestelle, sono insorti i Comitati “contro l’autonomia differenziata”, “contro la secessione dei ricchi“. I giornali del Sud e le testate di sinistra hanno addirittura parlato di “colpo di mano”, anche se l’impegno a varare quella legge era già nei Dpef da tre anni.

Draghi, com’è suo costume, non ha cambiato una virgola. Ma anche lui sa che i disegni di legge, prima o poi, han da passare in Parlamento. E se vogliono trovare i voti, di autonomia reale deve essercene poca, pochissima, quasi niente. Solo il titolo, possibilmente: come il famoso Federalismo Fiscale introdotto dal governo Andreotti, che di Federalismo non aveva neanche l’ombra.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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