29 Marzo 2024
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18 febbraio 1517 a Venezia si festeggia la pace dopo la guerra contro la Lega di Cambrai

La Serenissima festeggia la pace dopo la guerra di Cambrai.

Nel 1508 attraverso la Lega di Cambrai l’intera Europa, eccezione fatta per l’Inghilterra, si coalizzò contro la Serenissima.

Venezia si trovò ad avere “tuto ‘l mondo contra” e dopo pochi mesi, nella battaglia di Agnadello,  subì una devastante sconfitta:  “in una giornata, perderono quello che in ottocento anni, con tanta fatica, avevano acquistato” annotò  compiaciuto il perfido Machiavelli.

La Serenissima alla riscossa contro l’Europa intera

Tutto sembrò perduto per la Repubblica Veneta, l’esistenza stessa dello Stato Veneto venne messa  in discussione; ma prima da Treviso e poi da Padova iniziò la riscossa che, nel nome di San Marco, si concluse con la riconquista di Verona nel 1517: la Serenissima, da sola,  mantenne quasi inalterati i propri confini.

Ettore Beggiato, La Lega di Cambrai e la Serenissima. Copertina del libro

Un trionfo dovuto alla saldezza dello Stato, a una straordinaria diplomazia, alla capacità dei suoi condottieri, alla fede cristiana,  ma soprattutto all’incrollabile  attaccamento dei contadini veneti a San Marco; migliaia e migliaia di veneti pronti a farsi impiccare dichiarando che “era Marchesco e che Marchesco voleva morire, e non voleva vivere altrimenti” citando ancora il Machiavelli… se ci fosse una colonna sonora di questa pagina leggendaria della nostra storia veneta, in essa si sentirebbero le grida di “Marco, Marco!” e “Viva San Marco!”

I solenni festeggiamenti a Venezia per la pace

Ed ecco come  nella “Storia Veneta” espressa in centocinquanta tavole inventate e disegnate da Giuseppe Gatteri e illustrate da Francesco Zanotto” – Venezia 1863 – pag. 102 vengono riportati i festeggiamenti per la pace:

 

Venezia festeggia la pace (18 febbraio 1517)

Dopo parecchie vittorie riportate dalle armi della Repubblica contro i principi collegati a suo danno a Cambrai, intorno ad alcuna delle quali abbiamo toccato nelle illustrazioni antecedenti; e più per la diffidenza scambievole sorta fra i confederati medesimi, incominciossi a nudrire speranze di pace. Le quali, sebbene parea che dovessero al tutto svanire a motivo delle smodate pretensioni dell’imperatore Massimiliano; pure, atteso il bisogno d’oro in cui trovavasi esso Cesare, stretto da cotal necessità di dare a pegno, in mano di re Lodovico di Francia, per sessantamila ducati, la città di Verona, attese le nuove vittorie della Repubblica, per le quali ricuperava Rovigo, con tutto il suo territorio, e attesa in fine la gelosia suscitatasi nel cuore di Papa Giulio II, per vedere passata in podestà, sebben precaria, di re Lodovico, Verona, brillarono più che mai le speranze di quella pace sospiratissima da tutta Europa, funestata da una guerra stolta e micidiale.

Fu il pontefice ora detto, che in prima suscitava occulti nemici al suo alleato il re Francese; poi tolto solennemente il Monitorio scagliato contro alla Repubblica, stringeva con essa la pace, e quindi collegavasi seco contro il duce di Ferrara, fedele alla lega europea; e Giulio poi trascinava Ferdinando il Cattolico contro i Francesi; per cui tanto s’intralciaron le mene politiche e le cose guerresche in Italia, che vidersi città prese oggi, domani cedute; si vider succedere sconfitte a vittorie, e quelle a queste con alterna vicenda.

L’imperatore si piega e firma la tregua

Finalmente dopo tante e sì varie vicende, e dopo le molte pratiche operate per conciliare la pace, rimasto solo Massimiliano, piegossi pur egli alla fine, segnando primamente il trattato in Brusselle col re Francesco I di Francia, e quindi una tregua di otto mesi coi Veneziani. Poscia si estesero i preliminari della pace, che conchiuder doveasi in altro congresso tra Cambrai e San Quintino con la mediazione dei re di Francia e di Spagna.

Erano le condizioni: Restituirebbe Massimiliano alla Repubblica tutti gli stati da lei posseduti pria della guerra: porrebbe in podestà del re di Spagna Verona, e questi entro tre settimane la consegnerebbe a’ Francesi, affinché essi la restituissero tosto alla Repubblica: dovessero in quel frattempo sloggiare dalle terre veronesi i Tedeschi, eccettuate Riva di Trento e Roveredo; continuerebbe però temporariamente ciascuno a tenere le città e luoghi occupati in Friuli: pagherebbero, entro un anno, all’imperatore cento mila ducati i Francesi, ed altrettanti a lui la Repubblica.

Questo trattato, che ponea fine a una guerra durata otto anni, e che avea costato alla Repubblica oro in copia e torrenti di sangue e sacrifizii di ogni maniera, venìa pubblicato il dì 18 febbraio 1517.

Il racconto di Marin Sanudo

Cadeva in quel giorno in domenica (così narra il cronacista Marin Sanudo ne’ suoi Diarii inediti, che qui seguiamo, riducendo a miglio eloquio il suo famigliare dettato), ed il sole splendeva in tutto suo lume, aggiungendo per tal modo letizia alla festa. Il senato e gli ambasciatori si raccolsero in palazzo Ducale, di dove partì il doge Leonardo Loredano. Vestiva egli un manto di alto-liccio chermisi, ornato di bavero; indossavano i consiglieri di lui seriche vesti. Adagiato era il principe sopra una sedia portata sugli omeri da quattro operai dell’Arsenale. Lo seguivano l’ambasciatore del papa Giovan Giorgio Trissino, quelli di Francia e di Mantova e Janus di Campofregoso, condottier d’armi della Repubblica, indi i consiglieri, poi i procuratori di S. Marco, e quindi il conte Mercurio Bua.

Entrò la comitiva nella Basilica del Santo Patrono, ove assistito ai sacri misteri, celebrati dal patriarca Antonio Contarini, uscì quindi per la porta interna che mette in palazzo Ducale, da cui poi per la porta della Carta pervenne in piazza, e procedeva allora con l’ordine seguente.

Camminavano innanzi agli altri i suonatori di trombe, poi i pievani delle parrocchie indossanti ricchi piviali, poi il patriarca, cinto il capo di mitra, e retro di lui i canonici.  Veniva quindi il Doge portato seduto, come dicemmo; e giunto egli presso alla pietra del bando, fermossi unitamente a tutti gli altri. Saliva allora la detta Pietra Alberto Tealdini, secretario di Senato, al cui fianco avea il Commendator Nicolao, con vesti di col violaceo e mantello scarlatto alla spagnuola; il quale dato il segnal colla tromba, le altre trombe risposero, come ad annunziare al folto popolo raccolto la solenne pubblicazione che allor facevasi del trattato.

Il Doge proclama la pace, il grido “Viva San Marco”

Seguita la lettura di esso per opera del secretario Tealdini ora detto, una voce sollevossi fra la moltitudine come di un sol uomo, che gridò: Viva San Marco, e questa continuò ripetutamente durante la processione della comitiva, la quale pervenuta nella basilica, da questa pervenne poi nel palazzo Ducale e si disciolse.

Tutto intero quel giorno passò poi il popolo in festa, e la notte seguente fu illuminata la piazza, sonate a gloria le campane, accesi fuochi, sparate di continuo artiglierie, arsi altri fuochi di gioia, ed armonie musicali girarono per le vie.

Così solennizzarono i Veneziani la pubblicazione di quel trattato di pace; e la singolarità con la quale fu compiuta, secondo il costume di quei tempi, c’indusse a qui effigiarla, sulla considerazione eziandio che nessuno istorico noto, all’universale, tranne il nostro inedito cronacista Sanudo, ci ha tramandata memoria di quelle feste e di quelle costumanze preziose.”

Ettore Beggiato

Autore di

La lega di Cambrai e la Serenissima

 

 

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