Nato a Venezia in Calle dei Orbi, dalle parti di San Samuel, il 6 giugno 1884, Luigi Rossi, conosciuto da tutti come Gino Rossi, è uno dei più grandi pittori veneti del Novecento, protagonista assoluto di quella rinascita artistica veneziana nota come Scuola di Burano, uno dei movimenti artistici più importanti e meno noti di tutto il Novecento italiano. Muore a Treviso, nel manicomio di Sant’Artemio, il 16 dicembre 1947.

Sua madre era una Vianello, originaria di Pellestrina, e si chiamava Teresa. Suo padre Stanislao era il braccio destro di un nobiluomo di alto lignaggio, il principe Carlo di Borbone-Parma, a quel tempo proprietario di Ca’ Vendramin Calergi, il palazzo sul Canal Grande che oggi ospita il Casinò di Venezia.
Burano, Gino Rossi e gli altri nell’isola dei colori
Burano, l’isola dei colori, l’isola dei pescatori, della luce riflessa sulla laguna. Della quiete, del silenzio, della vita in armonia con la natura a due passi dal centro del mondo. Gino Rossi abitava lì, dopo il viaggio in Bretagna e a Parigi, sulle orme di Gaugin e di Van Gogh, che aveva segnato il suo percorso di artista.
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E lì a Burano si radunarono pittori come il trentino Umberto Moggioli, Pio Semeghini che aveva accompagnato Gino Rossi nelle sue scorribande a Parigi e in Bretagna, e Luigi Scopinich.

Negli anni in cui in Italia esplodeva la retorica futurista, a Venezia quattro grandi pittori si riunivano nell’isola di Burano e davano vita a un movimento che inseriva il Veneto nel solco della grande pittura novecentesca d’Oltralpe. Burano come la Bretagna, una pittura post-impressionista che innovava il linguaggio senza recidere i legami con la grande pittura del passato, in armonia e non in opposizione con la Natura e con la grande arte veneziana ed europea, ma aperta alla lezione di Van Goh, di Cézanne e dei grandi pittori europei “moderni”.
Scuola di Burano, manifesto di anti-retorica
Quello della Scuola di Burano era un manifesto di antiretorica, antinazionalismo e antifuturismo, anti-interventismo nella Prima Guerra Mondiale, e persino, si potrebbe dire, di antifascismo ante litteram.

In qualche misterioso modo, l’antica Serenissima aveva parlato: dal cuore delle lagune si levava, nell’Italia divorata dalla retorica nazionalista e industrialista, una voce che riuniva anziché dividere l’Europa, che apriva alle avanguardie europee rifuggendo i miti futuristi della guerra e della potenza, e tutta la retorica “classica”, per affermare la serena e civile convivenza in una modernità diversa, innovativa eppure in armonia col passato e con la natura.
La mostra di Ca’ Pesaro e l’ordine di chiusura
Questo carattere “politico” della Scuola di Burano emerse clamorosamente nel 1913, in piena retorica dannunziana e interventista, quando i pittori “buranelli”, i pittori ribelli esclusi dalla Biennale in omaggio al pensiero dominante, esposero a Ca’ Pesaro.

Il Comune di Venezia ordinò l’immediata chiusura della mostra, che evidentemente deprimeva lo spirito guerresco e nazionalista italiano imperante, e la censura provocò un terremoto: persino Umberto Boccioni scrisse che avrebbe voluto piuttosto esporre le sue opere “tra i vivi di Ca’ Pesaro” piuttosto che “tra i morti della Biennale”.
Gian Piero Rabuffi e la Scuola di Burano
E’ anche per questo suo carattere di testimonianza anti-retorica che ne faceva un’isola nel mare dell’arte di allora, che la Scuola di Burano – a differenza del Futurismo – è ancor oggi sconosciuta ai più, anche se il suo apporto all’arte contemporanea è stato importantissimo e fecondo anche nei decenni seguenti.

Va al grande storico dell’arte Gian Piero Rabuffi, con il suo monumentale volume “La Scuola di Burano“, il merito di aver riconosciuto la grandezza, la modernità e l’importanza del messaggio artistico che partiva dalla piccola isola lagunare.
Gino Rossi prigioniero a Caporetto
Un messaggio la cui valenza politica rimase intatta anche dopo la Prima guerra mondiale. La Scuola di Burano costituì in qualche modo una Resistenza culturale all’arte di regime, al Fascismo e al nazionalismo.
Gino Rossi pagò con la vita: mandato in prima linea, fatto prigioniero a Caporetto, la durezza di quella prigionia ne minò la salute anche mentale. Dopo il 1924 conobbe vari manicomi, e morì al Sant’Artemio, il manicomio di Treviso. Anche Umberto Moggioli fu ucciso in quegli anni, dall’epidemia di Spagnola.
La Resistenza di Burano alla retorica “romana”
Ma la Scuola di Burano era più viva che mai: nell’isola, divenuta ormai un centro di silenziosa “resistenza artistica” al regime fascista e alla sua retorica guerresca e nazionalista, convennero altri pittori, come Carlo Dalla Zorza, Fioravante Seibezzi, Nino Springolo, Neno Mori e tanti altri.

Il loro messaggio, in quegli anni di arte allineata e magniloquente, di grandiose architetture “romane”, ci parla ancora oggi di una bellezza e di un rifiuto della retorica che viene dalla più autentica tradizione della Serenissima.